
27 Apr Uno scalcagnato paesino di campagna e i suoi tesori: Yur’ev Pol’skij
A Yur’ev Pol’skij c’è un tempietto di pietra bianchissima nel bel mezzo della campagna, con una grande cupola nera e una croce dorata e ricoperto di strampalate creature. Credo che siano in pochi anche i russi a conoscerlo e i turisti ancora meno. E’una di quelle perle in cui mi sono imbattuta nelle mie innumerevoli ricerche, di quelle che ti folgorano e subito ti viene voglia di saperne di più e di capire perché non si siano meritate la fama di altre. Poi ti convinci che forse è meglio così, meglio che qualcosa sia lasciato come ricompensa per chi ha tanto cercato. E così ho trascinato con me i miei compagni di viaggio per andare a vederlo.
Yur’ev Pol’skij è un minuscolo agglomerato di sgangherate casette sulla strada tra Suzdal e Serghiev Posad. La strada per arrivarci, come vi ho già raccontato qui, è una specie di montagne russe tra le colline ma dritta dritta in mezzo alla campagna asfaltata malissimo. Fondata dal principe Yuri Dolgorukij di cui porta il nome nel 1152, custodisce questa perla dell’architettura russa medievale, il Georgevskij Cobor.
Trovarla non è difficile visto che ci saranno sì e no quattro strade! Come tutti i piccoli paesini della Russia orientale l’atmosfera di Yur’ev è come sospesa tra un romantico fascino campestre fatto di stradine sterrate e male asfaltate, aiuole verdi, innumerevoli chiese e monasteri e casette di legno, e una sensazione di inquietudine, di isolamento dal mondo e di abbandono quasi inselvatichito. Eppure prima che i Mongoli lo cancellassero dalla storia nell’inverno 1237-38 era un centro piuttosto importante nel nord-est della Russia. Parcheggiamo nella strada asfaltata che costeggia da un lato un parco e dall’altro le mura in mattoni rossi sormontate da una copertura lignea del Mikhaylo Arkhangel’skiy Monastyr’. Il territorio della chiesetta è delimitato da una bassa graziosa recinzione in ferro e un sentiero lastricato le gira tutto intorno.
Non c’era anima viva, a parte noi e un gruppetto di ricercatori e restauratori. Quella mattina il cielo era di un blu talmente profondo che faceva quasi male agli occhi, l’aria tersa e cristallina di fine estate. In quel blu la pietra bianca della chiesetta risaltava ancora di più. Questa pietra calcarea è tipica della zona, talmente utilizzata da aver dato vita ad una specie di “marchio di fabbrica”, i Monumenti in pietra bianca di Vladimir e Suzdal. Miracolosamente scampati all’invasione mongola oggi sono patrimonio UNESCO, anche questa bellissima e sperdutissima chiesetta, molto meno famosa delle sue sorelle.
Le pareti sono ricoperte di immagini bizzarre di animali, uccelli, piante, leoni con code “fiorenti”, oche con il collo intrecciato, fauci, viticci e sirene. Che cosa significano queste figure?
Il bestiario slavo affonda le sue radici nel substrato iranico della cultura Scita. Ad esempio la figura dell’uccello, è da sempre simbolo del ritorno della primavera ma anche, tramutato in uccello di fuoco, simbolo del sole. Come si legge nelle favole russe: “Ivan Zarevic scorse una forte luce che si avvicinava al giardino e, ben presto, vi si potè veder chiaro come in pieno giorno” – Favola del principe Ivan, dell’uccello di fuoco e del lupo grigio.
Leoni e sirene scolpite nella pietra della chiesa di San Giorgio a Yur’ev Pol’skij li ritroveremo anche nel legno delle isbe fino alla metà del XIX secolo. Un immaginario che paradossalmente potrebbe essere giunto all’arte russa del XII sec attraverso l’Occidente, ad opera di artisti renani giunti a lavorare a Vladimir. Ma qui non si tratta di copia quanto piuttosto di reinterpretazione di antiche suggestioni pagane in quelle terre di recente cristianizzazione.
Tra i bassorilievi trova posto anche il nome del maestro Bakun, il principale scultore della cattedrale, che guidò la squadra di intagliatori.
Sembra un gigantesco rebus di pietra, silenziosa come il silenzio che la circonda.