
13 Nov Vado a fare due chiacchiere con un capodoglio
Eh, ve lo dico, mi sono eccitato parecchio quando ho saputo di questo progetto, il Project CETI (che sta per “Cetacean Translation Initiative”).
È un progetto che non pecca certo di ambizione, dato che l’obiettivo è utilizzare l’Intelligenza Artificiale (AI) per decifrare e interpretare i suoni emessi dai capodogli in immersione, i cosiddetti “click”, con i quali questi cetacei comunicano tra loro attraverso sequenze sonore piuttosto strutturate (qui un esempio: https://www.youtube.com/watch?v=OONgNQKZpk8).
Tali sequenze di click potrebbero essere frasi di un linguaggio che noi Sapiens ignoriamo. E questo progetto forse un giorno ci consentirà di dialogare con i cetacei, sott’acqua.

Homepage – Project CETI ©
L’idea non è balzana. Esiste infatti una branca dell’AI (che, subacquea a parte, vi confesso, è un pezzo super-importante della mia vita professionale, ma questa è una lunga storia), chiamata Natural Language Processing, che ormai consente di analizzare e riprodurre il linguaggio umano con enorme efficacia, in modi sorprendenti per i non addetti ai lavori.
Si prenda il caso di GPT-3, sviluppato da www.openai.com. È un potentissimo algoritmo in grado di generare testo (ad esempio, scrive poesie) imparando autonomamente dalle interazioni e dalle conversazioni effettuate, oltre che da quasi tutto lo scibile (pare che Wikipedia corrisponda a meno dell’1% del materiale testuale sul quale è stato addestrato l’algoritmo GPT-3). Quindi, in sostanza, più si usa GPT-3 e più l’algoritmo impara. Le applicazioni sono già moltissime, in numerosi campi, e vi sono altri algoritmi analoghi. Questo per dire che gli strumenti ci sono, e quindi possiamo ambire a decifrare la lingua dei capodogli.
Ma non è detto che i capodogli (e altri animali dal cervello molto sviluppato) abbiano un reale linguaggio: emettere suoni, infatti, non significa di per sé avere un linguaggio. Un linguaggio deve avere innanzitutto una semantica, cioè certe sequenze di suoni devono corrispondere a un determinato significato, che non cambia. Poi, un linguaggio deve avere una grammatica, vale a dire regole, strutture. E deve essere oggetto di apprendimento – non si nasce con la capacità di parlare, la si apprende da piccoli.

Dal sito Project CETI ©
Ciò detto, sembra ragionevole supporre che i cetacei, e in particolare i capodogli, con il cervello più grande del regno animale – sei volte il nostro -, abbiano un linguaggio. Le loro capacità cognitive e le complesse strutture sociali dei branchi, in particolare la relazione tra mamma e cucciolo, nonché il fatto che vadano a caccia in gruppo a migliaia di metri di profondità, nel buio più assoluto, comunicando anche a grande distanza con dei click, sono senz’altro indizi positivi.
Quando i capodogli sono a 1000 metri di profondità, negli abissi, e durante le loro apnee pazzesche emettono suoni per lunghi periodi di tempo, non avranno qualcosa da dirsi, qualche consiglio su dove e come cacciare i calamari? E le madri non racconteranno forse delle storie per calmare i cuccioli impauriti dalle orche (ndr: l’unico predatore dei capodogli, quando sono piccoli)? Forse sì, e vale la pena provare a capirlo. Questa è l’idea dei ricercatori di CETI.
Il fatto poi che i click dei capodogli siano sostanzialmente sequenze discrete di suoni, simili al codice Morse, e quindi facilmente traducibili in sequenze di 0 e 1, facilita il compito degli algoritmi di AI.

Dal sito Project CETI ©
C’è un problema: comprendere un linguaggio sconosciuto è più facile se esiste qualcosa come la Stele di Rosetta: contenendo lo stesso testo in tre lingue, ha permesso di decifrare i geroglifici egiziani (e c’è comunque voluto un po’ di tempo). Per i capodogli ovviamente non esiste nulla di simile.
Occorre dunque che l’AI impari proprio come fanno i bambini: attraverso gli esempi, osservando suoni e comportamenti intorno a loro. Pensateci, un bambino apprende il significato della parola “mangiare” quando vede del cibo intorno a sé, imparando anche quali altri suoni più frequentemente si associano alla parola “mangiare”, ad esempio “bere” e “piatto”. Con AI e capodogli occorre fare lo stesso: partendo da una raccolta di suoni e comportamenti associati, l’AI imparerà (forse) a collegarli, grazie agli esempi. Apprenderà semantica e grammatica dei capodogli.
Per i più inclini alla scienza tra di voi, può risultare interessante questo articolo, che traccia la rotta del progetto CETI: https://arxiv.org/abs/2104.08614. Sono coinvolte fior di università di tutto il mondo, incluse MIT, UCLA, City University of New York, Imperial College, roba seria.
Se l’impresa riesce, si potranno creare traduttori e chatbot per dialogare con i capodogli in mare aperto. In immersione. Potrebbe essere una delle scoperte del secolo: decifrare compiutamente il linguaggio di altri animali.
Per me sarebbe certamente un grandioso passo avanti: ho avuto la fortuna di immergermi in apnea con dei cetacei svariate volte (ad esempio alle Azzorre), e spesso ho provato ad imitare il loro suoni. Ciò ha quasi sempre destato la loro curiosità, visto che gli animali si sono avvicinati con decisione, osservandomi da breve distanza (tipo: ritrovarsi il muso di un delfino a meno di mezzo metro dalla maschera). Ma probabilmente era solo per vedere cosa fosse quel coso goffamente farneticante, mai visto prima.